La CGT Campania ribadisce i tre requisiti fondamentali per poter fruire delle agevolazioni alle a.s.d.

L’ampia sentenza della Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Campania n. 7292 del 11/11/2022 non contiene particolari novità, ma con ampie citazioni di sentenze della Corte di Cassazione ribadisce con forza i tre principi fondamentali che le associazioni sportive dilettantistiche debbono rispettare con attenzione e puntualità, per poter usufruire delle agevolazioni fiscali, in particolare della c.d. decommercializzazione dei corrispettivi specifici di cui all’art. 148, III comma, T.U.I.R.: rispetto sostanziale dei requisiti di legge; effettività del rapporto associativo; divieto di distribuzione utili 

Non conosciamo il dettaglio dei rilievi sollevati nel Processo Verbale di Constatazione e le contestazioni esposte nel ricorso dell’associazione, ma in questa sede ci interessa poco: ciò su cui vogliamo porre l’attenzione sono i principi generali che la sentenza afferma, che tutti i sodalizi debbono tenere ben presenti.

La sentenza contiene poi altre considerazioni (non tutte condivisibili) di cui pure daremo conto.

Il rispetto sostanziale dei requisiti di legge

Sappiamo che la decommercializzazione dei corrispettivi specifici, ovvero il fatto che i corrispettivi pagati da soci o tesserati per svolgere attività sportiva non sono ricavi commerciali, è stabilita dal terzo comma dell’art. 148 T.U.I.R.

Tale importantissima agevolazione è sottoposta a una fondamentale condizione, stabilita dall’ottavo comma sempre dell’articolo 148: “Le disposizioni di cui ai commi 3 … si applicano a condizione che le associazioni interessate si conformino alle seguenti clausole, da inserire nei relativi atti costitutivi o statuti

Non ci stancheremo mai di sottolineare le parole esatte utilizzate dal legislatore, e addirittura dell’ordine di esse: non è sufficiente che tali clausole siano inserite nello statuto, ma è indispensabile, e anzi viene scritto ancor prima, che l’associazione effettivamente le rispetti.

Questo afferma la sentenza, e ampie, concordi e condivisibili sono le svariate citazioni da sentenze della Suprema Corte sul punto, tutte incentrate sul medesimo principio:

– “l’applicazione alle associazioni sportive dilettantistiche … del trattamento agevolato … è soggetta alla condizione dell’inserimento, … negli statuti, di tutte le clausole in tale norma dettagliatamente indicate … nonché, ovviamente, all’accertamento … che l’attività delle associazioni si svolga, in concreto, nel pieno rispetto delle prescrizioni contenute nelle clausole stesse. Non è affatto sufficiente, pertanto … né la mera appartenenza dell’ente alla categoria delle associazioni in questione, né la conformità dello statuto”; Cass 11456/2010

– “gli enti di tipo associativo possono godere del trattamento … a condizione non solo dell’inserimento … negli statuti, di tutte le clausole dettagliatamente indicate … ma anche dell’accertamento … che la loro attività si svolga, in concreto, nel pieno rispetto delle prescrizioni contenute nelle clausole stesse“; Cass. 14696/2018.

E trattandosi di norma agevolativa, il rispetto deve essere totale e inderogabile: è sufficiente la violazione anche di una sola delle clausole per perdere il diritto ai benefici.

L’effettività del rapporto associativo – La questione “soci-tesserati”

Il secondo requisito indispensabile è l’effettività del rapporto associativo e delle corrette modalità di svolgimento dello stesso.

Ben sappiamo che in sede di verifica è il primo controllo che viene effettuato, sia sotto il profilo del rispetto della democraticità e partecipazione dei soci, sia sotto il profilo della consapevolezza di essi di tale loro ruolo.

Nella sentenza viene sollevato in realtà un altro aspetto, ovvero “un’incongruente differenza tra il numero dei tesserati e dei soci”, che si collega al passaggio della sentenza di primo grado, nella quale si dà conto del fatto che l’associazione in sede di ricorso ha affermato che “l’Ufficio ha erroneamente desunto il numero dei soci non dal relativo registro bensì dal numero di tutti i tesseramenti effettuati”.

Da tale osservazione (e da altre) la sentenza afferma che “occorre verificare se l’Associazione possa … aver svolto quel ruolo di schermo per le attività sì da essere considerata soggetto fittiziamente interposto

L’interposizione fittizia, rilievo tanto caro a molti verificatori, ci pare in questo caso invocata fuori luogo; c’è infatti interposizione se dietro un soggetto se ne nasconde un altro, ma qui di soggetto ce n’è palesemente uno solo: regolare o irregolare che sia il suo comportamento, non si vede quale possa essere l’altro soggetto che dietro di esso si nasconde.

A parte ciò, la questione soci/tesserati non può che essere affrontata sulla base della situazione concreta:

a) se a fronte di un numero di frequentatori assai elevato (si parla di circa 1,2 milioni di euro di entrate) i soci sono pochissimi, e magari parenti fra loro, e magari mai hanno usufruito dei servizi dell’associazione, allora che effettivamente si tratti di una associazione può essere contestato

b) ma se esiste un nucleo effettivo di soci, che partecipano o che comunque hanno manifestato la volontà di partecipare alla vita associativa, e un numero nettamente più alto di semplici tesserati, che usufruiscono dei servizi offerti ma non sono interessati a partecipare alla vita associativa, dov’è il problema? Il tener ben distinte la figura dei soci da quella dei meri tesserati è anzi indice di corretta impostazione e distinzione dei ruoli, e sono innumerevoli i p.v.c. nei quali si solleva la critica diametralmente opposta: “solo una minima parte dei soci partecipa effettivamente alla vita associativa …”.

Non sappiamo quale sia il caso reale ma, come detto, non ci interessa: ciò che ci interessa è individuare il problema che viene sollevato, e verificare se tale contestazione sia legittima o meno, in linea generale.

Il divieto di distribuzione utili

È il rilievo fondamentale e, salvo esame delle prove (che come detto non conosciamo e non ci interessano in questa sede), incontestabile e “definitivo”: se, come si sostiene nel p.v.c. e si conferma in sentenza, vi sono ricavi non dichiarati e costi non documentati, né tale documentazione o una qualche giustificazione è stata prodotta successivamente, il rilievo di distribuzione utili appare effettivamente difficile da contestare, e da esso discende automaticamente la perdita del diritto ad avvalersi delle agevolazioni fiscali.

Come raccomandiamo sempre ai nostri clienti prima ancora che ai nostri lettori, anche solo un minimo importo del quale i verificatori riescano a dimostrare l’uscita dall’associazione per entrare nelle tasche di soci configura violazione di una delle norme fondamentali, se non la fondamentale, della struttura associativa; tutto poggia sull’assenza di scopo di lucro e quindi sul divieto di distribuzione utili: se manca tale requisito, gli altri diventano irrilevanti.

Valenza molto simile alla omessa annotazione (e quindi appropriazione) di parte delle entrate l’ha la presenza di costi non documentati.

È vero che la documentazione delle uscite negli enti associativi è in qualche modo tollerata anche se non è rigorosissima: se ragionevoli, note spese corredate da scontrini, rimborsi chilometrici senza una prova rigorosa dei viaggi effettuati, acquisti documentati da ricevute fiscali e non da fatture, pagamenti a collaboratori documentati dal solo bonifico e non da ricevute, ecc., vengono spesso ritenuti sufficienti, se di importi ragionevoli; ma uscite assolutamente non documentate vengono considerate, come nel caso qui in esamedistrazioni di fondi dall’associazione in violazione appunto del divieto di distribuzione utili.

Ed è altresì vero che una cosa è un costo non documentato, del quale non è nota la destinazione, altra cosa è un ammanco/appropriazione da parte p.es. del presidente, altra cosa ancora è la distribuzione di utili a soci, ma in sede di verifica queste tre fattispecie vengono spesso confuse o sovrapposte, e la difesa non è assolutamente facile.

Non possiamo quindi che continuare a raccomandare il massimo rigore nella gestione dei fondi dell’associazione, privilegiando per quanto possibile il canale bancario, che tiene traccia dei destinatari delle somme e che può quindi essere assai utile non solo per tenere sotto controllo la contabilità, ma anche per dimostrare che eventuali uscite non correttamente documentate non sono comunque finite nelle tasche dei soci.

Le altre considerazioni emerse dalle due sentenze, di primo e secondo grado

La sentenza di primo grado, estremamente stringata, dedica più di una notazione al fatto che “dal riscontro dei messaggi pubblicitari rivolti al pubblico e degli altri documenti acquisiti al controllo, non emerge l’indicazione (obbligatoria) della qualifica di Associazione Sportiva Dilettantistica”.

L’importanza attribuita a questo elemento ci pare eccessiva, come pure l’affermazione che tale indicazione sia “obbligatoria”: né nell’art. 148 o in altri articoli del T.U.I.R. (e della disciplina IVA), né nell’art. 90 della legge 289/2002 troviamo l’indicazione di tale obbligatorietà, ma semplicemente, nell’art. 90, che “devono indicare nella denominazione sociale la finalità sportiva e la ragione o la denominazione sociale dilettantistica”, non certo che devono scriverla nel messaggi pubblicitari.

Condivisibile è l’affermazione “che le associazioni sportive, pur non essendo obbligate alla tenuta delle scritture contabili obbligatorie, devono comunque porre in essere una serie di adempimenti documentali, da cui si possa dedurre la natura ‘dilettantistica’ e le modalità di esercizio dell’attività, laddove il rendiconto economico finanziario rappresenta senza dubbio uno strumento di trasparenza e di controllo dell’intera gestione economica e finanziaria dell’associazione”.

E ancora “La legge 398/91 esenta i club aderenti dagli obblighi previsti da norme fiscali, inclusa la contabilità dell’attività commerciale, il che tuttavia non significa che il sodalizio tragga vantaggio da esoneri che potrebbero diventare omissioni, anzi proprio la presenza di ricavi rilevanti ai fini tributari impone una congrua qualità ed efficacia amministrativa e induce a convenire, ancora una volta, sull’opportunità di aggiornare scritture e registri anche se non vi è obbligo di farlo”.

Al di là dell’esistenza o meno di un preciso ed esplicito obbligo di legge, sappiamo che le agevolazioni fiscali competono se sono rispettati determinati requisiti (primo fra tutti l’assenza di distribuzione di utili), e che è onere dell’associazione dimostrare tale rispetto: pur non essendo necessaria la tenuta di una contabilità rigorosa in partita doppia, la tenuta di una qualche forma di registrazione di entrate e uscite da un lato supporta i dati esposti nel rendiconto, dall’altro dimostra che non vi è stata alcuna distribuzione/distrazione di risorse del sodalizio.

Altrettanto condivisibile riteniamo sia il prosieguo del periodo citato qui sopra, nel quale si afferma che dalla documentazione e rilevazione contabile si debba “desumere non soltanto il risultato economico dell’anno, ma anche la corretta destinazione degli utili di esercizio prodottisi nel corso degli anni ovvero delle modalità di copertura delle eventuali perdite”.

Questo è un aspetto talvolta trascurato dalle associazioni, soprattutto quelle di piccole dimensioni: deve essere conservato e documentato il collegamento fra i vari esercizi in ordine al risultato di essi.

In parole più semplici, se nell’esercizio 2022 l’associazione consegue un utile, nell’esercizio 2023 deve dar conto di dove quell’utile è finito.

Non ha importanza se lo si faccia tenendo una contabilità in partita doppia e quindi predisponendo oltre al conto economico anche la situazione patrimoniale, o semplicemente indicando in calce al rendiconto la variazione fra la consistenza di cassa e banca all’inizio e alla fine dell’esercizio, o addirittura inserendo l’utile dell’esercizio precedente come prima entrata dell’esercizio successivo: l’importante è che tale collegamento venga effettuato e tenuto sotto controllo.

Infine, la sentenza cita un provvedimento della Corte di Cassazione che cogliamo l’occasione per commentare, dato che contiene un’affermazione che non ci convince completamente.

Si tratta dell’Ordinanza n. 8182/2020, nella quale la Corte afferma che “occorre distinguere tra la questione relativa all’individuazione della qualità dell’ente da quella relativa alla qualificazione delle attività poste in essere dallo stesso, ai fini fiscali, quali commerciali o non commerciali e che le agevolazioni fiscali sono precluse qualora si svolga attività di tipo commerciale”.

Siamo d’accordo sul fatto che:

– una cosa è la “qualità dell’ente”: una associazione è una associazione, sia che svolga sia che non svolga attività commerciale

– una cosa è la “qualificazione dell’attività” che essa svolge: se svolge attività commerciale essa rimane un’associazione ma quella rimane attività commerciale, anche se svolta da un ente senza scopo di lucro.

Non siamo invece assolutamente d’accordo sull’ultima affermazione, perché è proprio per le attività di tipo commerciale che sono dettate le agevolazioni fiscali:

– stabilendone la decommercializzazione nei limiti e alle condizioni stabilite dall’art. 148 T.U.I.R.

– stabilendo un regime forfetario di favore e un esonero da gran parte degli adempimenti, nel caso rispetti i requisiti di cui alla legge 398/91. Affermare che se viene svolta attività commerciale sono precluse le agevolazioni è semplicemente il contrario di ciò che stabilisce la legge.

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